Fonte dell’articolo silvestrini.org
Credere, amare e… saltare! ||| Quando la fede va alla ricerca del miracoloso, meraviglioso, della soddisfazione visiva, del segno, vuol dire che: o è in crisi oppure non è mai cresciuta, non è divenuta mai adulta. Il "credere" si sostiene nella rinuncia del "vedere". In tale ottica, prima e seconda lettura, sembrerebbero essere in antitesi. Infatti, mentre la prima è l'apoteosi dello straordinario, la seconda mette in guardia, e anzi rimprovera, chi chiede un prodigio. In Esodo gli Israeliti rimpiangono la loro condizione servile, ciò voleva dire anche riconoscere la superiorità degli dèi stranieri rispetto all'unico Dio, poiché per la concezione antica il popolo era libero anche quando poteva mostrare la potenza della divinità preposta a sua difesa. La liberazione, il passaggio, avviene mediante un atto di coraggio richiesto da Mosé (v. 13). È il medesimo coraggio di cui si ha bisogno nel credere senza appoggi sensibili. Come il popolo riluttante si affida a Dio, così la fede, benché tante volte non supportata da prove manifeste, dovrebbe abbandonarsi senza richiedere tante dimostrazioni. Non basta avere in testa delle teorie metafisiche che mettono in pace la nostra ragione, poiché davanti ad un evento qual è la resurrezione, accennato dall'evangelista (v. 40), tutti i sistemi, anche i più complessi, crollano. Il credere, dunque, non può essere sostenuto solo dal ragionamento, anzi questo in certi momenti è di ostacolo, deve quindi essere informato dall'amore. Credere ed amare fanno parte della stessa modalità di rapportarsi alle persone, e di conseguenza a Dio. Credere e amare però richiedono un po' di follia che dia il coraggio di saltare i precipizi o, per dirla biblicamente, attraversare un mare a piedi!